Amarcord – Tornerà il 1990, le notti magiche dietro a un pallone

Momento surreale, con quella sensazione di vivere come dentro una bolla di sapone nella quale però non ti senti comunque al sicuro da ciò che ti circonda. Conteggi di contagi, numeri spietati che sembrano un bollettino di guerra, e pensi e speri che sia solo un brutto sogno. Viene voglia di pensare ad un futuro migliore, ma nel frattempo nel calore del focolare domestico è normale anche fare un tuffo nel passato, per rivivere ciò che è stato e che ha appassionato i nostri cuori.


30 anni esatti sono trascorsi da quel 1990 che ci avrebbe proiettato verso una kermesse magica fatta di notti magiche come quelle del Mondiale che si giocava in casa nostra, nella nostra Italia oggi così ferita per la quale lottiamo e nella quale tutti ci stiamo identificando. E’ il nostro Mondiale, dopo una stagione che si conclude con uno storico tris europeo tutto tricolore. Il Milan del trio olandese (ri)vince la Coppa dei Campioni che ancora si chiamava Coppa dei Campioni, la Sampdoria di Vialli e Mancini vince la Coppa delle Coppe che da tempo non esiste più, la Juventus guidata da Dino Zoff e in attacco dal futuro protagonista delle notti magiche Totò Schillaci vince la Coppa UEFA che ancora si chiamava Coppa UEFA battendo in una doppia finale tutta nostrana l’ultima Fiorentina di Baggio e della “foca monaca” Nappi (rivedere il numero in semifinale contro il Werder Brema sul neutro di Perugia).


Chi, come il sottoscritto, era bambino o ragazzo nel 1990 e comunque ha buona memoria, non può dimenticarsi l’atmosfera che si viveva in Italia. Forse le parole più emblematiche nel descrivere ciò sono quelle di Federico Buffa, che racconta che “si dormiva poco, si stava bene". L’Italia era un Paese benestante, e noi ci godevamo il Mondiale in casa: avevamo la squadra favorita e ogni giorno si viveva un’emozione diversa. Si sentiva un’energia particolare che circolava dappertutto, anche il cappuccino aveva un altro sapore”.

Anche sul piano musicale abbiamo una colonna sonora veramente bella, le nostre notti magiche (che pochi anni fa hanno ispirato il film di Virzì) si rispecchiano anche nel quarantacinque giri di Gianna Nannini ed Edoardo Bennato, che cantano (e rappresentano) “Un’estate italiana”. La nostra Nazionale del 1990 nasce per buona parte dall’Under 21 che agli Europei di categoria del 1986 perde ai rigori contro la Spagna allenata da Luisito Suarez, ed infatti fanno parte di quella squadra i vari Maldini, Ferri, De Napoli, Donadoni, Giannini, Vialli, Mancini che ne era il capitano. A questi, il commissario tecnico Azeglio Vicini aggiunge Zenga già Uomo Ragno tra i pali, Bergomi e Baresi già Campioni del Mondo nel 1982, Ancelotti a centrocampo e Carnevale in attacco.

Con questa ossatura abbiamo fatto un buon Europeo nel 1988, siamo una bella squadra e giochiamo in casa. Pochi dubbi per il nostro ct, tranne quelli legati per coloro i quali completeranno l’elenco dei 22 prescelti. Vicini non vorrebbe escludere Luca Fusi, che ha giocato nella Sampdoria con Vialli e Mancini ed ha un certo affiatamento con i gemelli del gol blucerchiati. E che piace molto al tecnico per la sua duttilità ed affidabilità. Ne è prova la partita amichevole disputata a Spalato nel 1988 contro la Jugoslavia, nel giorno dell’esordio di Paolo Maldini nella Nazionale. In quella squadra slava ricca di talento un giocatore spicca più degli altri (insieme a Stojkovic), ovvero Dejan Savicevic che in giornata di grazia è immarcabile, e quel giorno “il Genio” è in una di quelle giornate.

Per una buona ora di gioco non lo prendiamo mai, fin quando Vicini manda in campo Fusi, che riesce dove nessuno era ancora riuscito, ovvero limitare il futuro rossonero. Al momento decisivo per le convocazioni però il nostro condottiero, a malincuore, comunica a Fusi che ha deciso di convocare uno Schillaci che a suon di gol e prestazioni ha scalato le gerarchie, cosa che farà ben presto anche nel corso di quella rassegna iridata. Vicini pensa che ci sia bisogno di qualcosa in più in attacco, e nonostante i titolari inizialmente siano Carnevale e Vialli, e le presunte riserve Baggio, Mancini e Serena, il ragazzo siciliano dagli occhi sgranati fa parte della spedizione azzurra quando appena l’anno prima si laureava capocannoniere della Serie B con la maglia del Messina. Un salto da sogno in un mondo da sogno. Una favola che fa innamorare una nazione intera.


E che inizia fin dalla prima partita, quando il 9 giugno all’esordio non riusciamo a scardinare il muro austriaco. Fino a quando ad un quarto d’ora dalla fine non viene chiamato in campo lui, il brutto anatroccolo che diventerà cigno. Esce Carnevale, che manda “al diavolo” la panchina e la sua carriera in Nazionale in un colpo solo. Quattro minuti e Vialli dalla destra mette al centro un cross ben calibrato, ci stanno un portiere e due difensori colossi, ma anche un siciliano di 1,75 che incorna palla e Austria.

Amarcord – Tornerà il 1990, le notti magiche dietro a un pallone

E’ l’1-0, sarà il risultato finale, sarà subito amore col pubblico dell’Olimpico. Quanto è importante giocare a Roma si capirà nelle partite successive disputate in quello stadio, ma soprattutto nella partita per noi più triste che guarda caso non si disputerà lì. Per far ciò, per restare a Roma, bisogna vincere il girone, e battere la Cecoslovacchia, che sospinta da Skuhravy ne ha dati 5 agli USA, mentre noi con gli americani vinciamo solo 1-0 con gol del nostro principe Giannini e con Vialli che colpisce il palo su rigore e che gioca condizionato da un problema muscolare un Mondiale nel quale per tutti sarebbe stato la nostra stella indiscussa. La missione si compie grazie ad un’altra rete di Schillaci e alla prodezza di Baggio, che parte da centrocampo, salta tutti e realizza uno dei gol più belli della storia della nostra Nazionale. 2-0, 6 punti nel girone (all’epoca erano 2 per vittoria) e si resta all’Olimpico.


Negli ottavi di finale incontriamo comunque un avversario scomodo come l’Uruguay, ma lo superiamo 2-0 con il solito gol di Schillaci e con un colpo di testa di Serena, in pratica sempre più sospinti dagli attaccanti di scorta. Ai quarti di finale tocca al sorprendente Eire di Jackie Charlton, scardinato manco a dirlo da Totò che riprende una corta respinta del portiere Bonner su tiro di Donadoni. Ma il destino beffardo sta per compiersi: in semifinale ci tocca un’Argentina che è arrivata fin qui in modo che più rocambolesco non si può. In un modo talmente rocambolesco che ci vorrebbe un articolo a parte, per cui questa storia magari la racconteremo in seguito perché ricca di aneddoti come è tipico del calcio argentino.

Di certo è sospinta fin qui anche e soprattutto dalle manone sante di un “milonguero” di origine basca che di cognome fa Goycoechea e di mestiere il secondo portiere (fino al grave infortunio del titolare Pumpido). Gli ultimi Mondiali sono un affare tra noi e loro, che si laureano campioni nel 1978 e nel 1986, titoli inframmezzati dal nostro successo in Spagna nel 1982. Il problema non è solo che si gioca contro Maradona, il problema è anche che si gioca proprio a Napoli, e “el pibe de oro” la giocata la fa ben prima del fischio d’inizio dell’arbitro, con frasi ad effetto che un po’ sbilanciano l’ambiente.

Perché Diego non è stato solo leggenda calcistica, è stato anche capopopolo, ed a questi livelli il carisma fa tanto quanto la classe. I nostri si accorgono fin dal riscaldamento che qualcosa è diverso rispetto alle gare precedenti, i tifosi espongono lo striscione “Diego, Napoli ti ama ma l’Italia è la nostra patria”, il pubblico si fa sentire sì, ma non è la stessa atmosfera da notti magiche dell’Olimpico.

Ed in effetti quella notte da magica si trasforma in un incubo. E si consuma in un dramma calcistico. Iniziamo bene e passiamo in vantaggio al minuto 17 con un gol fortunoso di Schillaci che tenta la girata di destro e segna con la tibia. Tutto sembra sotto controllo, nessuno fino a quel momento aveva mai bucato Zenga, siamo arrivati fin qui con tre vittorie per 1-0 e due vittorie per 2-0. E siamo in vantaggio anche in questa notte del 3 luglio, le premesse sembrano favorevoli e gli astri dalla nostra. Ma improvviso giunge a metà ripresa un lancio da sinistra, Ferri e Zenga non la prendono, Caniggia purtroppo sì, ed è il pareggio.

Un pareggio che ci taglia le gambe, e i nostri avversari, che tecnicamente non sono eccelsi ma hanno un trascinatore come Maradona, speculano su quel golletto. L’Argentina che vince il Mondiale del 1986 e che arriva in finale nel Mondiale del 1990 non è una squadra di fenomeni, ma Maradona forse è l’unico nella storia dei Mondiali ad aver vinto un Mondiale quasi totalmente da solo. Il risultato non si schioda nemmeno ai supplementari con il primo tempo che dura misteriosamente ben 23 (!) minuti. Nemmeno con i nostri avversari in 10 per l’espulsione di Giusti. Si va ai tiri dal dischetto, proprio come sperava l’Argentina, che si basa sul suo portiere pararigori.

Goycoechea applica ancora la sua legge (proprio come fece nei quarti di finale contro la splendida incompiuta Jugoslavia), i tiri di Donadoni e Serena sono neutralizzati così come sono neutralizzati i nostri sogni di gloria. E’ il 3 luglio del 1990, è finita così ma mai come quell’anno è stato bello sognare ed idealizzare un sogno che non si è avverato fino in fondo.


Arriveremo terzi, battendo l’Inghilterra per 2-1 nella finale per il terzo posto, Schillaci realizzerà su rigore il gol che lo porterà sul trono dei bomber di quel Mondiale, e sarà la nostra piccola consolazione per ciò che poteva essere e per ciò che non è stato. Il nostro Mondiale lo vincerà l’ultima Germania Ovest della storia, il 9 novembre 1989 la caduta del Muro di Berlino elimina la distinzione tra Ovest ed Est in terra teutonica, ma questa è un’altra storia ben più lunga e profonda di quella qui raccontata.

Quella Germania Ovest prevarrà in finale sull’Argentina perché le manone di Goycoechea stavolta non arriveranno per questione di centimetri ad intercettare il rigore chirurgico di Brehme, un mancino che calcia di destro il rigore decisivo in una finale mondiale. Mai come in quell’estate è stato dolce sfiorare un sogno irrealizzato ma a lungo idealizzato.


La speranza è che si possa tornare a sognare presto tutti insieme, e che questo racconto sia servito a distrarci un po’ ed a proiettarci in un tempo che fu e che speriamo torni presto, un tempo nel quale si sognava tutti insieme e tutti insieme ci si divertiva, ci si abbracciava dopo un gol, un tempo in cui anche il cappuccino aveva un sapore diverso.